Lucio Nocentini intervista Andrea G. Pinketts
Ottobre 2007
Il bar è lo Smouth di piazza Wagner. Andrea c’è tutti i giorni, verso le quattro. E’ il suo “ufficio”, prima di raggiungere il Trottoir che adesso l’hanno spostato in piazza XXIV maggio, e come dice lui, è più scomodo.
L – Ci stiamo avvicinando al primo novembre. Oramai è noto che quel giorno e solo quel giorno tu lo dedichi a cominciare un nuovo romanzo. Ma l’anno appena trascorso lo hai passato a fare tivù e cinema… Avremo un nuovo libro con due attacchi?
A – Io ho scritto il titolo… ci metterò degli anni… se vado avanti così ci metto vent’anni perché ho scritto un capitolo… no forse quindici. Ho scritto un capitolo in un anno, forse tra quindici anni, se vado di questo passo, avrò finito. Ho la suggestione del titolo. Io parto sempre dalla suggestione del titolo, che è Depilando Pilar, e ho deciso di dividere il romanzo in due parti, la pelle e il pelo che sono i temi della storia. La storia la ignoro completamente. Tutto ciò che ho scritto fin’ora è di un mio imbarazzantissimo condiloma che risale a un paio di anni fa che ha fatto sì che io diventassi intimo amico del professor Cusini della clinica dermatologica di via Pace.
L – Allora il primo novembre non ne cominci un altro…
A – No no. Non ne comincio un altro perché tra me e questo è guerra aperta e non so se vincerò, magari perdo anche questa battaglia e devo aspettare il primo novembre successivo.
Passa un signore di ottanta e rotti anni. Indossa un cappello a larga tesa, una giacca di pilor, jeans, una sciarpa di seta rosa e una cravatta azzurra. Ci saluta. Andrea me lo presenta come “il maestro”. Lui intona un do di petto e ci dice che siamo due persone meravigliose. Poi com’ è arrivato se ne va.
L – Lo conosci bene?
A – Non gli ho mai domandato come si chiama. Mi limito a chiamarlo maestro. Potrebbe avere ottant’anni. Cammina a fatica ma impettito, fa avanti e indietro cinque o sei volte al giorno, fra piazza Piemonte e la casa di riposo per artisti Giuseppe verdi. Ha sempre dei colori sgargianti in nuance, oppure veste di verdino, arancione. Porta sempre due o tre cravatte, sempre in nuance comunque. Ha i guanti anche d’estate. Così abbiamo cominciato vedendoci tutti i giorni, perché questo è il mio ufficio diurno, ci salutiamo e dalle due parole che vengono scambiate ci sono sempre un sacco di complimenti. Lui è sempre molto cerimonioso. Dice: “Chi non le dice che è un grande è perché la invidia…” Frasi di questo genere, e ogni tanto mi parla di questo viaggio in America che farà e che probabilmente oramai è solo nella sua fantasia.
L – Potrebbe entrare diretto in un racconto? Vogliamo provare un titolo? Caccia al Lardo, per esempio… qualcuno sta spazzolando il lardo dai bar e dal supermercato sma, e lui c’entra qualcosa…
A – Caccia al lardo… Non lo so. Non lo vedo pertinente al titolo perché lui è un uomo quasi privo di sangue… sembra un fantasma… scusami suona il telefonino… Comunque lo userò in un libro, quest’ uomo. Il supermercato è invece molto ben frequentato ma dal punto di vista estetico. Non so per quale strano motivo, ma in questa zona c’è una concentrazione di bellezze. Perché lo ambienteresti qui caccia al lardo?
L – Non c’è un nesso. Avevo in mente due titoli che non hanno fatto in tempo ad entrare in Alimentare Watson!… L’altro è Scambio di cozze. E l’idea mi è venuta a Pontedera, dove tu hai proposto al pubblico di partecipare a scrivere un racconto insieme a te, ad Andrea Carlo Cappi, Patrizia Pesaresi, Biagio Proietti, Marcotullio… e altri scrittori. E hai fornito due titoli, Il muco della serratura e Bastardo di un cigno. E’ stata una serata spumeggiante.
A – Se è un racconto allora lo scrivi tu.
L – Io volevo provare a farlo insieme a te.
A – Sì, ma facciamo una cosa alla volta, vediamo.
L – Allora torniamo all’intervista. Il film che hai appena girato. Me ne parli?
A – Nasce dal fatto che nel 2004 insieme a Francesco Baccini ho scritto un musical che è partito dal Ponchielli di Cremona, la prima. Un teatro molto snob. Poi ha avuto un grande mese e oltre di repliche, oltre le varie tournée, Brescia, Como, eccetera poi il Ciak di Milano. Era una specie di mio Otto e mezzo, un collage. E’ stata un’opera maledetta tipo il Machbeth… Baccini si è infortunato durante una scena che doveva essere atletica, quindi non poteva più suonare il piano, doveva suonarlo con un dito in meno. La produzione ha litigato con la gestione del teatro. E’ saltata la seconda parte della tournée, quindi doveva stare in giro due anni. Una sola lunga stagione… dissidi interni. Era già nato male perché l’abbiamo dovuto riscrivere in due settimane in quanto il primo regista a un certo momento ha abbandonato il campo, prima della prima, ricattandoci… Non abbiamo accettato il ricatto e abbiamo riscritto la trama. L’ho presa alla lontana… e ti spiego perché. L’ultima rappresentazione è stata filmata con telecamera fissa da Giuseppe Parlotta che è un… fino allora aveva fatto videoclip e lavori su commissione… nel frattempo passano due anni, lui vince dei premi per il cortometraggio al Torino Film Festival, finalmente la regione Piemonte gli dà i soldi, delle banche gli danno i soldi, lui scrive questa storia, la storia è sua… è onirica, una specie di Piccolo principe e di Alice nel paese delle meraviglie… C’è una bambina che va alla ricerca del padre nel ’44 durante i rastrellamenti dei nazisti e incontra dei personaggi emblematici… il soldato che è Baccini, il brigante che è Bebo Storti, una figura materna che è Serena Grandi, io che sono un principe decaduto, ho dovuto far crescere un barbone per tre mesi, ero una specie di Gattopardo dei poveri, e abbiamo girato per due mesi intensissimi. Dormivamo in un parco naturale dalle parti di Rocchetta Tanaro. In una specie di agriturismo, ma neanche. Di notte non potevamo uscire per via dei cinghiali… Di giorno, ovviamente sveglia alle sei, poi si girava nel fango e col sole a picco. Esperienza devastante ma interessante che mi ha distolto dalla stesura del libro. Ero calato nella parte del principe e non riuscivo a pensare a nient’altro. Questo film andrà ai festival e da lì troverà una distribuzione questa primavera. E’ un lavoro anomalo per l’Italia. Lo vedo più adatto a un pubblico francese o… maggiormente aperto alla sperimentazione, perché tu come ben sai le cose che vanno qui sono o Notte prima degli esami o al contrario, Vacanze di Natale.
L – Proprio in Francia hai ricevuto un premio…
A – Un riconoscimento. La medaglia d’onore dell’assemblea nazionale, cioè del parlamento francese, che consiste nel cavalierato per meriti culturali. In Francia non solo per il cinema c’è un’attenzione enorme ai libri… In un articolo ho affermato in rimetta, se in patria scrivi un noir ti mandano a cagar, se in Francia fai un Polar, diventi una rock star.
L – Andrea Camilleri si stupisce che i suoi libri abbiano successo in Germania.
A – Io ho un bravissimo traduttore, si chiama Gerard Lecas, che è anche uno scrittore. Meticolosissimo. Ogni volta che un gioco di parole non corrisponde in francese mi chiama. Poi io storpio le parole. Lui ogni volta mi telefona e mi trova delle soluzioni alternative.
L – Due sere fa, quando ci siamo visti, stavi andando a Odeon tivù per dire la tua sul delitto di Garlasco. Com’è andata?
A – C’erano un criminologo, un avvocato di grido, una giornalista di Libero, una di Odeon che sono lì e hanno seguito i fatti dal giorno del delitto. Ne sanno più loro che chiunque altro. Volevano il mio parere… io parlavo di una sorta di strumentalizzazione abbastanza facile, perché il ragazzo all’inizio, lacrime. Adesso si è chiuso a riccio. Non è un mostro di simpatia, ma da quello a essere un mostro tout-court ce ne corre. E’ inevitabile una certa forma di speculazione da parte dei giornali che è più emotiva che logica.
L – I quotidiani hanno messo in prima pagina le immagini passate on line delle cugine in fotomontaggio con Franzoni, Bin Laden, quelli della strage di Erba… Io lo trovo vergognoso!
A – Hai ragione. Il fatto del fotomontaggio fa sì che farsa e tragedia vadano di pari passo. Uno squallore che visto da estraneo può anche essere divertente. La stupidità delle cugine… Ti faccio un esempio: lui, libero durante gli interrogatori… La vittima, Chiara, sembra un po’ la suorina laica. Lui dice che le aveva portato da Londra dei completini di biancheria intima e un vibratore come regalo. Però questa cosa letta in modo sbagliato fa dire: “Questa ha una doppia vita”. Invece non è assolutamente vero. Una cosa non esclude l’altra. Una può essere una bravissima ragazza, utilizza per i giochi erotici con il fidanzato quello che vuole… E’ il creare una santa che poi crei immediatamente una puttana… e c’è una grandissima speculazione anche su quello.
L – Come per Lady D.
A – Cappi ci aveva scritto un libro sulla Lady D. Io gli avevo fatto la prefazione nella prima edizione. L’hanno tolta nella seconda, strano.
L – A me ha insospettito l’autista ubriaco e ci stavo scrivendo un racconto, sulla falsa riga di un suicidio su commissione… poi non ne ho fatto niente. C’era troppo clamore intorno, e ho preferito il silenzio.
A .- Cappi sposa sempre la teoria del complotto e molte volte è vero, ma non c’è sempre un complotto al giorno! Quello di lady D. può essere stato un delitto di corte, addirittura, però la meccanica la ignoro. Trovo la tua teoria suggestiva, come quella di Cappi.
L – Ho visto le foto pubblicate pochi istanti prima dell’incidente, e la guardia del corpo era senza cintura di sicurezza. Ci si chiede perché hanno detto a tutti che le aveva, invece? Qualcuno gliele ha messe dopo?
A – Può essere benissimo un complotto di corte, pensa a Jack lo squartatore. Forse il duca di Clearance, oppure omicidi di corte per evitare che venissero alla luce le imbarazzanti frequentazioni degli eredi al trono. O il medico di corte. Non lo sapremo mai. Tornando invece a me, io ho sentito delle voci che mi vedono amante di Marta Marzotto e di Fernanda Pivano.
L – Ricordo di una sera alla Tikkun, e tu di fronte a cento persone le hai detto che non le avresti leccando il culo, né metaforicamente, tantomeno fisicamente, perché era troppo vecchia per te.
A – La Fernanda l’ho conosciuta quindici anni fa. Aveva letto prima che uscisse “Il vizio dell’agnello”… mi ha scritto una lettera. Abbiamo cominciato a frequentarci per un periodo… con lei siamo andati al concerto di Vasco Rossi, per esempio. Io ero stremato da sei ore di macchina e lei era fresca come una rosa. E’ una donna straordinaria, e sostengo che non è stato Cristoforo Colombo a scoprire l’America ma Fernanda Pivano. Fa tenerezza il fatto che avendo 90 anni adesso, le sere a cena, si assopisce per un minuto, poi si risveglia come se non fosse passato quel minuto e riprende il discorso esattamente da dove lo ha interrotto.
L – L’incontro con Lia Volpatti?
A – Io avevo scritto un racconto e una persona, un’amica di famiglia, grande lettrice di Stuart Kaminsky, aveva ravvisato in alcuni miei racconti dei punti di contatto con lui, allora lei mi ha suggerito di andare alla Mondatori e di parlare con Lia Volpatti e Gian Franco Orsi. Allora il direttore era la Laura Grimaldi. Ho mandato il mio primo racconto al Mystfest di Cattolica e soprattutto aveva delle consequenze, il vincerlo . Era il 1984. Il racconto ha vinto, dopodichè ho cominciato a collaborare col giallo Mondatori. Col mio primo romanzo, credevo invece di avere la vittoria in tasca, perché era assolutamente superiore, forse era un po’ fuori tempo, allora. Ho avuto uno shock quando mi hanno detto che non ho vinto ed è rimasto per sette anni fermo. Intanto io ho raffreddato i miei rapporti con la Mondatori, non con la Lia e Gian Franco, e ho preso altre strade. Per esempio ho fatto il giornalista investigativo, lavoravo per la terza pagina de il Giorno…Mi sono travestito da nero per raccontare i vucumprà, ho vissuto un mese alla stazione centrale, ho fatto l’attore sadomaso, mi sono infiltrato fra i satanismi di Bologna, cosa che ha poi portato al processo Dimitri, il capo dei bambini di Satana, ero testimone chiave dell’accusa. Così il mio primo libro è uscito con Metropolis, dei fratelli Vallardi, che erano poi gli editori di Esquire, prima che arrivasse Ciarrapico. In questo periodo telefonavo a Lia nel cuore della notte e le leggevo dei brani delle storie che stavo scrivendo. L’ho ossessionata, ma si è stabilito un rapporto particolare. E’ diventata la mia vice-madre. Fu durante un Mystfest, di notte, alle tre, ho incontrato in un locale l’accompagnatrice italiana di Vasco Montalban. Non vedevano l’ora di buttarci fuori, io ho dato il mio primo libro a Montalban, lui mi ha dato il suo. ha cominciato a leggerlo, poi l’ha lasciato a Silvia Meucci, della Feltrinelli. Lei l’ha letto nel cuore e nel coro della notte e mi ha telefonato e mi ha detto “E’ bellissimo, dovresti scrivere per noi”. Ho detto “Non c’è problema” perché io nel frattempo avevo scritto altri due libri. Perché quando non è uscito Lazzaro, vieni fuori io non ho desistito ma sono partito col secondo e col terzo. Talmente ero certo della validità del progetto. Da qui la leggenda che io scrivessi un libro all’anno, che non è assolutamente vero.
L – Cosa ne pensi del Noir italiano?
A – Lucarelli, Fois, Montanari. Siamo usciti tutti negli anni ’90. Tra noi non esistevano rivalità. Il noir secondo me è un genere non genere. Ognuno di noi ha un personalissimo stile e non c’è il rischio della fotocopia. Siamo accomunati dal fatto di avere combattuto insieme come compagni di cordata contro il disinteresse comune che c’era nei confronti del noir prima del nostro arrivo. Siamo riusciti insieme, ognuno col proprio contributo a sfondare questo muro di gomma, con risultati assolutamente positivi per noi. Allora sembrava eretico scrivere un noir. Adesso non ce n’è uno che non si cimenti col noir! E’ diventato un genere assolutamente inflazionato. Quando un editore di qualsiasi calibro scrive la quarta di copertina di un libro ci infila la parola noir perché sembra un passepartout, un lasciapassare.
L – Io amo Camilleri e lo ritengo un grande scrittore di letteratura, ma credo che con il giallo non c’entri un cazzo. Tu cosa ne pensi? E come lui tanti altri minori che di giallo hanno solo la copertina.
A – Secondo me l’unico giallo che c’entra col giallo era il mystery, quello della golden age. Poi c’è l’har boiled che anche quello è un clichè poi sono nate le specializzazioni, sai per esempio quelli che che scrivono gli psyco triller, i serial thriller, inflazionati anche loro, i legal thriller… Mentre io mi ricordo il primo di Scott Thurow, Presunto innocente, era un legal thriller giallo ma era anche un giallo. John Grisham è squisitamente solo quello. E non è che sia un torto. Forse la trama dovrebbe essere meno importante delle cose che ti interessa raccontare. La trama è l’ossatura, ma la carne ce la devi mettere tu. E’ la carne che conta, non l’ossatura… la carne è il disagio, la follia, il drop-out.
L – Biondillo ti piace?
A – Lui per esempio, tra gli ultimi arrivati… il suo primo è del 2004… in tre anni è riuscito ad avere un posto al sole. Si vede che anche lui alcune cose le aveva già scritte…. Sembra quasi uno dei fondatori. Biondillo è un grandissimo paraculo, e lo dico in senso buono. E’ un Richelieu della situazione.
L – Ha conquistato anche la Lia (Volpatti), pur avendo dichiarato in una intervista al Corriere della sera che non ha mai letto neanche un giallo di Agatha Christie!
Andrea ride.
L – Andrea e Milano?
A – Ne parlavo nel mio ultimo… Ho fatto giardino. Dalla chiusura del Trottoir in poi, ma anche dopo la cartoleria De Magistris, storica. Adesso tutti questi posti diventano boutiques. Milano sta diventando una città di boutiques, il che, visto i problemi economici che ha la nazione, io non credo che ogni cittadino si compri un blazer di Armani al giorno, per cui tutto questo proliferare di boutiques mi fa inevitabilmente pensare al riciclaggio di denaro sporco. Cosa che in fondo ho sempre pensato anche per le morti sospette degli stilisti. Da Versace in poi.
L – Ultimamente ho vissuto un po’ in Toscana e un po’ a Madrid. Il mio ritorno a Milano, con le incazzature che ti fa prendere la gente, è stato un po’ traumatico. Tu non ti incazzi?
A – Vedi, tu ne sei stato un po’ fuori e lo vedi come qualcosa di negativo. Visto da qui, c’è stata una sorta di assuefazione all’incazzatura. Qui lo vedono come una cosa normale. Vivendo in questo contesto, i milanesi si stupiscono del fatto che esistono altri contesti.
E lei, signorina, mi porti un’altra birra!