Mario Biondi

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Mario Bondi – Lo spilungone pelato!

IF è il titolo del nuovo attesissimo album di Mario Biondi (70.000 copie in prenotazione). Anticipato dal singolo Be Lonely in radio dal 30 ottobre, è già disco di platino. Come Mario è diventato una leggenda, dopo Handful of Soul, del 2004.

Ci incontriamo negli uffici di Parole e dintorni dove insieme a lui ascoltiamo questo album dal respiro internazionale: è stato registrato tra Roma e Rio De Janeiro, masterizzato a New York e si avvale degli archi registrati a Londra dalla Telefilmonic Orchestra London.

M. – If è il frutto di un percorso di circa due anni, tra scrittura, idee, arrangiamento, esecuzione musicale. La realizzazione vera e propria è di due mesi e mezzo. Naturalmente si sono messe in asse delle situazioni favorevoli per cui sono riuscito a fare questo lavoro entro i tempi che mi ero prefissato. Stavolta ho cantato non con un quintetto e basta, ma con l’orchestra di Londra, sezioni fiati a non finire, musicisti americani, musicisti brasiliani, un grande lavoro.

D. – Ascoltando certi pezzi ho avvertito alcune atmosfere del disco di Burt Bacharach con Elvis Costello…

M. – Wow. Sono innamorato di quel disco!

D. – Vogliamo commentare questo nuovo lavoro pezzo per pezzo?

M. – Ok. Il primo, Serenity, è la cover di un sassofonista tedesco strepitoso ottuagenario che si chiama Herb Geller. Il titolo all’origine era Sudden Senility. Oltre a Geller in questo disco ho raccolto altri due ottuagenari strepitosi, Burt Bacharach e Carlo Alberto Rossi. Questo brano nasce con una senilità improvvisa che io ho voluto invece trasformare in serenità. Herb Geller mi ha dato subito il suo benestare. A segnalarmelo era stato un Dj italiano che si chiama Bruno Bolla, molto bravo. Mi ha mandato un CD con un paio di idee, tra cui Sudden Senility. Si avvale del piano elettrico del grande Herman Jackson e della batteria di Michel Baker.

Il secondo brano… Something That Was Beautiful… è di Burt Bacharach. Cosa desiderare di più?

D. – Sono venuto al concerto al teatro degli Arcimboldi, l’anno scorso, dove tu hai cantato prima di lui. Siete stati grandi!

M. – Durante il mio concerto lui era sulla quinta, in piedi come un soldatino di piombo che mi guardava e mi faceva segni tipo Ok man, Go, Ok! Io pensavo di essere dentro un sogno. E’ stato per me un grande onore. Quando sono sceso dal palco lui, da buon camerata mi ha appoggiato un cazzotto sullo stomaco… eccezionale! Ho pensato: sarà il mio periodo fortunato se un grande come lui mi apprezza in questa maniera. Inaspettatamente, un mese prima che io iniziassi la lavorazione di questo nuovo disco Michael Baker, batterista storico di Whitney Houston ma anche della nostra Giorgia nazionale, mi ha detto che Burt voleva mandarmi due brani inediti adatti a me. Puoi immaginare la mia gioia, il mio giubilo! Non li ho inseriti entrambi, perché uno ho preferito tenermelo nel cassetto. Spero che la mia vita sia lunga abbastanza… Comunque la bellezza di questo evento è straordinaria se pensi che oggi tutto funziona in maniera diversa, per la serie: “Ti faccio fare questa cosa se tu aiuti il mio giovane di bottega…”. Le cose magari funzionano lo stesso, apparentemente, ma hanno un’energia diversa. Io ho fatto le lotte per registrare questo brano, insieme a Bon de doer, un brano in portoghese, dal testo scritto da Nelson Motta, uno dei più grandi parolieri e poeti della storia brasiliana. Ho fatto le lotte perché lavorare sui miei brani è stato molto impegnativo, e io avevo il sogno di registrare questi brani a Rio. Ho fatto la mia valigettina con quattro cose e sono andato. Questi due brani infatti contengono lo stesso organico musicale. Marcélo Costa alla batteria, storico batterista di Caetano Veloso, che io considero uno dei più grandi cantanti musicisti brasiliani. Ricardo Silveira, uno dei chitarristi più eclatanti della scena brasiliana contemporanea. Something That Was Beautiful, Burt me l’ha mandata in versione molto lenta, anzi lentissima, trascinata, e io ho provato a velocizzarla un attimo e a darle un po’ di groove, come si dice in gergo. Rallentarsi comunque ti fa capire molto meglio le cose e un omino di 84 anni sa che è così. Io però per inserirlo in un’ambientazione più vivace ho voluto ravvivare l’atmosfera.

D. Perché, secondo te, Burt Bacharach ha pensato di spedirti due brani inediti?

M. – Non lo so. Penso che sia una scoperta continua la vita.

D. – Non credi che l’abbia fatto perché sa riconoscere un fenomeno?

M. – Apprezzo molto quello che mi dici, ma i fenomeni sono loro (Herman Jackson, Burt Bacharach e Carlo Alberto Rossi) e sono felice che ripongano in me questo affetto e questa stima. Tendenzialmente cerco di restare con i piedi per terra. E poi nella vita si è tutto e non siamo niente. Pensa che anche un mito come Bacharach ha passato un momento in cui per la grande industria discografica, commercialmente parlando, non valeva più niente. Però per tutti gli amanti della musica come siamo anche io e te, rimarrà sempre un personaggio unico.

D. – Come lo sei tu. Sei il fenomeno musicale più interessante di questi ultimi anni, in Italia.

M. – Ti ringrazio di cuore. Mi fa molto piacere che tu dica questo. Per me adesso, con IF, è una sorta di prova. Ho cambiato la visione degli arrangiamenti, il modo di scrivere alcune cose. Mi rincuora comunque il fatto che i miei nuovi pezzi piacciano agli addetti ai lavori.

D. – Passiamo alla terza traccia dell’album. Be Lonely. Ascoltandolo mi ha fatto pensare alle atmosfere di Donna Summer.

M. – Io pensavo a The O’Jays, gruppo storico del Philadelphia Sound, però nulla ci vieta di andare anche dal nostro Barry White, tanto spesso mi è stato nominato. Anche qui al piano è Herman Jackson. E’ un pezzo vispo, quasi anni settanta, mi ha divertito molto, e devo dire grazie alla mano di Peppe Vessicchio che mi ha aiutato a creare una contrapposizione di archi, com’era nello stile di quegli anni. Peppe lo stimo molto e lo trovo un grande musicista moderno e ricercatore. E’ un personaggio fantastico. E poi c’è il flauto traverso di Nicola stilo. Lui ha suonato perfino con Chet Baker.

D. – Love Dreamer?

M. – Appartiene alla mia forma di cantautore. E’ una visione particolare. qualcosa che porta verso il samba. Tempo un po’ spezzato. Parla di un sognatore che crede ancora nell’amore. Bisogna crederci tanto se no non si va da nessuna parte. C’è un assolo di tromba straordinario di Fabrizio bosso.

D. – Black Shop?

M. – In questo brano, musicalmente, saltano fuori personaggi come Julian Oliver Mazzariello al pianoforte e Giovanni Amato all’assolo di tromba. Ogni brano ha la propria realtà, la propria anima, e un musicista leader. Poi c’è If, che dà il titolo all’album. Una persona si chiede se veramente ami la vita che percorri. Se ami tutto quello che fai. Il leader della situazione, lì è Giovanni Baglioni, con questa chitarra suonata in maniera davvero originale. Questa accordatura particolare. Al sinth gioca Andrea Bertorelli. E Roberto Manzin è un sax tenore in un crescendo strepitoso.

D. – Poi arriva I Wanna Make It.

M. – E’ una ballata… qualcuno dice parigina. Io la vedo molto Newyorkese. Comunque io ci vedo pioggia, una giornata uggiosa ma che ti trasmette anche il calore che l’inverno comunque ti dà. Questa canzone è nata sul palco del teatro Goldoni di Livorno. Mi sono messo a giocare sul pianoforte. Comincio e finisco fischiando. Anche qui c’è Nicola Stilo con il flauto traverso.

Poi il pezzo successivo è No Mo’ Trouble. In stile afro. L’ho scritta e ideata a Palermo. Lì sentivo molto questa vicinanza all’Africa, io poi sono Catanese, e ho avvertito il calore della nostra terra. Questa canzone chiede “Basta sofferenze”. Direi che abbiamo dato tutti troppo. E’ la canzone che sento più di tutte. Ma sai, ci vorrebbe un talk show e non basterebbe per parlare di tutti i problemi…

Ectasy è un’altra ballade che mi piace e della quale sono orgoglioso. La definirei un turbinio di passione. Non è un brano semplice come scrittura, arrangiamento e canto. Al basso c’è Sonny Lloyd Thompson, all’organo Gianni Giudici, la Telefimonic di Londra e questi signori che fanno background vocal e che si chiamano “The Mothers Of Gospel”. Splendide voci che mi supportano e che chiudono il brano. In studio abbiamo lavorato in cinquanta, sessanta persone… è stato veramente un lavoro duro. abbiamo registrato a Roma al Forum Music Village, con Fabio Patrignani. Lui come Peppe mi hanno dato grande forza durante la registrazione di questo lavoro. Alla fine eravamo stremati. Ci trovavamo la mattina alle dieci o alle undici, poi anche a mezzogiorno, ma non abbiamo mai finito prima delle tre o delle quattro del mattino. Questo per due mesi e mezzo. Bronchiti, antibiotici… Comunque, per fortuna, sono qui a raccontarlo!

Poi c’è I Know It’s Over. E se domani… in versione un po’ caraibica. Se io faccio una cover io ascolto tutte le versioni che sono state fatte. In questo caso le versioni erano tutte enfatizzate e “tristi”. Io allora ho pensato: e se domani io non potessi rivedere te… per te è finita, per me no. E mi è venuto in mente quel personaggio incredibile che cantava Somewhere Over The Rainbow in maniera dolcissima con l’ukulele. Come si chiamava? Credo che sia morto.

D. – Si chiamava Israel Kamakawiwo’Ole.

M. – Sì. Mi è venuto in mente lui, facendo questa versione di E se domani. E ho inserito nella musica un pizzico di avanspettacolo degli anni quaranta cinquanta. Un miscuglio di ritmi. La prima versione di E se domani fu di Fausto Cigliano, prima che di Mina. Spero che la mia versione non offenda nessuno. E’ brillante, divertente.

Poi arriva un’altra cover che ci porta nell’inverno in America, appunto Winter in America. Scott Heron grande cantautore discussissimo ricercato dall’FBI per concussione con le Black Panter, lui era un sostenitore del Black Power, e come tutti gli estremismi, dopo aver sofferto tanto i neri si sono ribellati in maniera violenta. Lui ha sempre fotografato in maniera piuttosto diretta e chiara la sua visione degli americani e della loro politica e lo fa anche con questa canzone dei primi anni settanta.

Poi è la volta di Cry Anymore. Un’altra mia canzone preferita. Torniamo al terzinato alla Bacharach. Con un pizzico ancora di Sound di Philadelphia.

Poi Little B’s Poem, una specie di ninnananna per un bambino che deve nascere. Un po’ teatrale nello stile, quasi da musicall.

Infine la “mia” Bon De Doer. Una bellissima fotografia. Due che si incontrano in un bar in riva al mare. Si innamorano e si accorgono che il loro amore è così bello che ogni giorno ricomincia, come se fosse il primo. In questa canzone suona un violoncellista strepitoso, Jacqués Morelenbaum.

D. – Con questo disco hai cambiato etichetta. Sei passato a Tattica.

M. – Come Renato (Zero) che per me è un grande artista, e un grande attore di se stesso. Un personaggio molto particolare. Mi ha preso a benvolere come uno zio. Mi ha detto “a nì, ma che vai a ffa, mo. Te ne vai co’ quello o quell’artro. Ma lascia perde’! Vade retro Major! E così ho seguito il suo consiglio.

D. – Come vi siete conosciuti?

M. – Eravamo alla Forum Music Village a Roma. Io stavo facendo alcuni provini per If. Fabio Patrignani mi ha detto che c’era Renatino, e che se volevo salutarlo… Io sono andato di là, un po’ timido e ho detto “Maestro, posso salutarla?” e lui mi ha risposto “A nì, menomale che in questa musica italiana sei venuto fuori te. Hai dato ‘na boccata de fresco a tutti”. Non mi aspettavo dei complimenti di questo genere. Poi da lì è nata una frequentazione telefonica e il duetto Non smetterei più.

D. – A Sanremo hai duettato in Come in ogni ora, con Karima mentre Bacharach vi accompagnava al piano. E’ stato uno dei momenti magici della manifestazione. Com’è successo che vi siete amalgamati così bene?

M. – Quando Burt Bacharach è stato invitato per accompagnare Karima lui ha detto “vengo, ma voglio con me lo spilungone pelato”, che sarei io. Sembra che abbia preteso la mia presenza sul palco.

D. – E con Amalia Grè?

M. – Amalia mi fece contattare tramite la Emi. io, appena ascoltato il brano, Amami per sempre, ho detto sì, subito! In quell’occasione è nata anche l’amicizia con Peppe Vessicchio, che aveva scritto gli archi.

D. – E il duetto con Nicky Nicolay, Sei come sei/Just How U are?

M. – E’ una mia rivisitazione di un brano già scritto in italiano. Io ne ho fatta una versione inglese per omaggiare la grande Sofia Loren. Appena l’hanno sentito Niky e Stefano Di Battista lo hanno voluto fare. Mi spiace invece che Stefano mi abbia dato bidone nel mio If!

D. – Con Ornella Vanoni, Cosa m’importa, che si trova nel suo disco Una bellissima ragazza, com’è nato?

M. – Come nascono di solito i duetti. Sono stato chiamato da Mario Lavezzi che mi ha detto che Ornella avrebbe avuto piacere di fare qualcosa insieme a me. E’ stranissima Ornella. ha un modo tutto suo di interfacciarsi con le persone.

D. – E con i Neri per caso? Il pezzo è What a Fool Believes.

M. – Io adoro loro. Li trovo spettacolari, come tanti altri vocalist. Ci siamo contattati tramite My Space. Io l’ho fatto e Mimì mi ha risposto: ma sei davvero tu? Poi è nato tutto, anche se io allora non ero famoso. La Sony storceva un po’ il naso, poi il mio disco è decollato, e hanno fatto i salti di gioia. Col mio singolo solo credo che abbiano venduto 30.000 copie.

D. – Perché non mettete tutti questi bei duetti in un disco?

M. – Li metterò. Ci ho già pensato e metterò anche quelli fatti per Micalizzi, Trinity e Bargain With the Devil. Ti confesso anzi che il progetto dei duetti era già in aria ancora prima di pensare a If.

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